Continuando a vanvera la narrazione (vedi mio precedente articolo) riprendo dalle parole di Goffredo Malaterra in merito al Guiscardo che con il suo seguito lascia il castello di Scribla a causa di un problema di salubrità dell’aria. Dice testualmente “Robertus vero Guiscardus, cum apud Scriblam moraretur,… cum videret suos propter infirmitatem loci et aeris diversitatem languescere, saniorem locum expetens,…” cioè “Roberto il Guiscardo, mentre si tratteneva a Scribla,…essendosi accorto che i suoi languivano per la debolezza del luogo e la diversità dell’aria,…si mise alla ricerca di un luogo più salubre”.

Area paludosa Foto: Wikipedia
Ma che cos’è questa diversità dell’aria, “aeris diversitatem” che fa ammalare i normanni?
Gli storici ipotizzano che si tratti di malaria.
In effetti il termine malaria anche detta paludismo, deriva dal latino Malus aer, mal aria, mentre il termine paludismo deriva dal termine latino palus, palude. I due termini con cui è identificata la malattia sono strettamente legati tra loro perché nel medioevo si credeva che la mal-aria potesse appunto essere contratta dall’inalazione dei miasmi delle paludi, cioè respirando la mal aria delle paludi. È solo alla fine del 1800 che si è compreso che la malattia era conseguenza della puntura di una specie di zanzara anofele (Anopheles), e che era associata al ciclo del plasmodio, un parassita di cui la zanzara anofele è vettore di contagio.
Ma nel 1048-1050 a cui si riferisce l’episodio del Malaterra, il castello di Scribla, oggi nel comune di Spezzano Albanese, provincia di Cosenza, si trovava davvero in un’area malarica, prossima alle paludi? Senza dubi sì. Da fonti storiche sappiamo infatti che alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.c.) la valle del Crati (come altre grandi aree pianeggianti d’Italia) è interessata da un processo di impaludamento, conseguente alla cessazione dei lavori di manutenzione e mantenimento delle opere di regimentazione delle acque, come argini e canalizzazioni. Probabilmente la stessa Thurio è stata definitivamente abbandonata per questo motivo. A prova di questo processo di impaludamento ci viene d’aiuto la toponomastica e la diplomatica. Sono molti, infatti, i documenti redatti tra il X e il XIII secolo (in realtà anche successivi) che riferiscono di località della valle del Crati che hanno il toponimo Pantano. L’etimologia del termine pantano, pantanum deriva proprio dal già visto latino palus, palude, la cui radice puls, pultem cioè poltiglia o palta, è anche detta panta, che allargata diventa pantano, che è quindi un altro modo di dire palude. Riporto a titolo d’esempio una Charta Venditionis, cioè un atto di vendita stipulato nel gennaio del 1171 a San Marco, con cui Manso e sua moglie Guttualda alla presenza di diversi testimoni (tra cui il vescovo di San Marco Ruben) vendono a Domenico, Abate dell’Abbazia della Sambucina, un terreno “in loco qui dicitur Pantanum”, cioè in un luogo detto Pantano.

Schema di diffusione dell’infezione nel corpo umano a partire dalla puntura di una zanzara già veicolo del plasmodio Foto: focus.it
Un’altra conferma molto interessante seppur recente è la Carta della Malaria dell’Italia, pubblicata per iniziativa del Senato del Regno d’Italia nel 1882. Questa carta era uno strumento della guerra nazionale alla malaria avviata dal giovane stato italiano postunitario. Dalla carta si evince chiaramente che l’intera pianura della valle del Crati era zona malarica, con una gradazione del rischio che andava da aree perimetrali collinari sicure, ad aree che nell’avvicinarsi ai corsi dei fiumi, degli acquitrini, e dei pantani, aumenta il rischio da grave a gravissimo.

Carta della malaria d’Italia Foto: Wikipedia
Per comprendere definitivamente come si presentasse il paesaggio della valle del Crati e quale fosse il rischio di contrarre la malaria, ci aiuta il diario del grandissimo Luigi Vittorio Bertarelli fondatore del touring club ciclisitico italiano, oggi touring club italiano (Diario di un cicloturista di fine Ottocento da Reggio Calabria ad Eboli), che nel 1897 risale la Calabria in un viaggio epico in bicicletta, e che nell’attraversare la valle del Crati ne dà una descrizione chiarificante:
“Uscendo da Cosenza la strada, meno ben tenuta che nel percorso precedente, segue per quaranta chilometri il corso del Crati, il maggior fiume calabrese…Immense macchie totalmente deserte coprono la larga valle, macchie dove predominano l’ontano, la betula, la sabinia e la canna palustre; ove dappertutto, come nelle jangade brasiliane, l’acqua c’è o corrente, o stagnante, o visibile, o nascosta…Poi ecco una distesa d’acqua pantanosa: fiori gialli e bianchi nel mezzo delle larghe foglie galleggianti di ninfea pari a foglie di zucca, praterie verde pisello di lenti palustri qua e là aperte dal tuffo di rane e di rospi. Uno stormo di anitre si leva, sbatte le ali, radendo colle palmate zampe le acque tranquille e si posa più lontano… Dalla melma emergono teste colossali di bufali, che se ne stanno a ruminare, il corpo nascosto nella mota, teste sciocche e spaventose che si direbbero di bisonte, corpi neri, gibbosi e glabri; che paiono di ippopotami. E guardano la bicicletta a venti, a cento, immobili, le corna volte in avanti, forse innocenti ma che danno l’ali alle ruote…La ferrovia corre anch’essa sul piano. Ad un passaggio a livello una carrozzella è ferma e un tipo di buon amicone che è dentro, grosso e rubicondo, mi interpella porgendomi un bicchiere di vino. Alla vostra salute! È il medico della ferrovia, che attende un malato. – Ora non vi sono febbri qui, mi dice, vengono solo dopo luglio e allora sono terribili.

Luigi Vittorio Bertarelli Foto: Wikipedia
Quindi si, possiamo confermare senza timore di essere smentiti che i normanni lasciano Scribla effettivamente perché lì c’era la malaria e che a San Marco non c’era. Questo suggerirebbe che l’incastellamento medievale, come anche semplicemente la risalita degli abitati in collina e montagna, potrebbe essere stato favorito anche, dalla diffusione della malaria. Ma questo potrebbe essere oggetto di un altro approfondimento.
In Italia la malaria è stata una malattia endemica per oltre 1300 anni, che ha causato un numero difficilmente quantificabile di morti. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha certificato ufficialmente che l’italia si è liberata dalla malaria solo il 17 novembre del 1970.
Ancora oggi la malaria a livello globale è capace di oltre 500 milioni di decessi.
Enrico Tassone