Lo studio delle carte greche, latine, e delle platee e censi medievali e rinascimentali, continuano ad offrirmi spunti interessantissimi di comprensione della storia del nostro territorio. Vedi i miei precedenti articoli.
Il ragionamento di questo articolo però non parte da nessuno di questi documenti storici, ma dal vangelo di Luca, e dal racconto di Zaccheo, uomo di piccola statura che pur di vedere Gesù che passa tra la folla di Gerico “salì su un sicomoro” (Luca 19,1-5). Il sicomoro, questa pianta che nel racconto evangelico si fa strumento per avvicinarsi a Gesù, per me si fa strumento per avvicinarmi ad una comprensione di glossologia (credo).
In una carta latina stipulata a Cosenza nel giugno del 1248, Bono dona per devozione all’abbazia di Sant’Angelo de Frigillo (comune di Mesoraca) una terra per orto con alberi da frutto nel territorio del casale Fillini (Figline Vegliaturo). Della donazione però Bono esclude due piedi di sicomoro “exceptis duobus pedibus siccemororum” che sono della figlia Stella “qui sunt Stille filie mee”.
Nel 1200 quindi nella Valle del Crati c’erano degli alberi di sicomoro. Il sicomoro (Ficus Sycomorus) è un albero la cui diffusione è tipicamente individuabile tra l’Africa e il Medio Oriente, ed è tra le piante oggi censite nell’Arca del gusto di Slow Food come biodiversità a rischio di estinzione. La presenza di una pianta che oggi sarebbe considerata alloctona, aliena, cioè fuori dal suo areale di diffusione, nella Valle del Crati è spiegabile con quello che storici e paleoclimatologi chiamano optimum climatico medievale, cioè dal fatto che nel medioevo si è avuto un clima dalle temperature calde (rispetto ad oggi) simile al ciclo caldo che ha favorito l’Impero Romano, e che potrebbe aver favorito allo stesso modo la diffusione e l’uso di tantissime piante e colture oggi considerate non tipiche. Non a caso Varrone nel suo De Re Rustica dice dell’Italia “tota pomarium videtur” (DRR I,2,6) sembra tutto un frutteto.
Cercando altre fonti sul sicomoro, le ho trovate nella platea del Monastero di Santa Chiara di San Marco Argentano del 1632, trascritta nel 2008 dal professore Paolo Chiaselotti. In questo interessantissimo documento ci sono diversi riferimenti al sicomoro proprio nei territori di San Marco, e addirittura negli orti e giardini tra le mura della civitas. I termini che si ripetono nell’articolazione dei diversi possedimenti del monastero sono “arboratam siccomorum” o “siccomor”, o “siccomorum”, che hanno molta familiarità con il “siccemororum” della carta latina del 1248.
Da un punto di vista climatico però qualcosa non torna.
Nel 1600 infatti quell’optimum climatico a cui abbiamo fatto riferimento e che avrebbe potuto favorire e spiegare la presenza di piante di Ficus Sycomorus nella Valle del Crati non dovrebbe essere più presente e le temperature dovrebbero infatti essere più fredde e non più favorevoli a questa pianta. È infatti noto che dal 1300 al 1700 si ha un raffreddamento medio delle temperature, a causa di un cambiamento definito piccola era glaciale.
La soluzione a questo enigma pedoclimatico me la offre il professore Chiaselotti in una nota integrativa alla traduzione della platea, che definisce una delle piante di sicomoro “questo piede di celso…”. Celso, è il napoletano vicereale del termine Gelso (Morus Alba), la morus celsus romana che inizialmente mi sembrava un errore di associazione, ma considerando la profonda conoscenza del professore per tutto quello che è glossa ed etimologia mi ha costretto ad indagare meglio ed a scoprire che essendo di fatto le due piante facenti parte della stessa famiglia di classificazione, le Moracee (una è però un ficus, l’atra una morus), di fatto ha permesso al gelso di essere anche storicamente definita sicomoro. A prova di questo ritornando sul vangelo di Luca da cui sono partito c’è la concordanza del termine συκομορέαν, sykomorean (concordanza 4809), che definisce il termine greco sukomorea , fico-gelso, gelso-bianco. Sbalorditivo. Non solo probabilmente i sicomori che ho rintracciato nel 1248 non erano sicomori ma gelsi, ma anche la pianta su cui salì Zaccheo altro non era che un gelso, e prova di questo è una miniatura (vedi foto) di un tacuinum sanitatis del XIV secolo dove si vede chiaramente che i frutti identificati con sico-muri sono quelli a noi familiari del Gelso.
Enrico Tassone
Un grazie speciale al professore Chiaselotti

Miniatura tacuinum sanitatis del XIV secolo Foto:Wikipedia